“L’appropriazione di beni aziendali, ancorché illegittimo, non è del tutto sovrapponibile alla sottrazione funzionale al consumo”.
(Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza del 06.11.2014 – depositata in data 20.01.2015- n. 854/2015).
di Antonella Mascaro e Luigi Ciambrone *
La vicenda processuale: Con ricorso notificato a mani nel domicilio eletto nel mese di febbraio 2012 la Società ricorrente, in persona dell’amministratore delegato, legale rappresentante, proponeva ricorso avverso la Sentenza nr. 943/2001, datata 07.07.2011 con deposito in Cancelleria in data 23.09.2011, della Corte di Appello di Catanzaro, Sezione Lavoro, che – in riforma della sentenza di primo grado- accoglieva l’appello interposto dichiarando illegittimo il licenziamento ed ordinando l’immediata reintegra del lavoratore oltre il pagamento delle retribuzioni dovute dalla data del licenziamento all’effettiva reintegra, oltre accessori come per legge. Avverso la precitata sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il datore di lavoro, sostanzialmente con un unico motivo seppur “esplicitato” nelle lettere indicate con A); B) e C). Il primo ed unico motivo che può essere riassunto nella pretesa violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 Cod. Civ. e dell’art. 03 legge n. 604 del 1966, in relazione, anche, all’art. 30, comma 3, legge n. 183 del 2010 (art. 360 n. 3, c.p.c.). Motivazione insufficiente ed illogica. Omesso esame di circostanze decisive; omessa motivazione in ordine all’asserita prova di asserite circostanze attenuanti (art. 360, n. 5, c.p.c.). La lettera A) che può essere riassunta nella pretesa violazione dell’art. 2119 Cod. civ. e dell’art. 30, comma 3, legge n. 183 del 2010, in relazione ad illecito disciplinare integrante condotta delittuosa contro il datore di lavoro. La lettera B) che può essere riassunta nella pretesa violazione del vizio assoluto di motivazione sulle circostanze della condotta delittuosa, sull’elemento psicologico e sulla premeditazione. La lettera C) che può essere riassunta nella pretesa violazione del vizio assoluto di motivazione ed illogicità conclamata con riferimento alle presunte circostanze “attenuanti”, ritenute “comprovate” dalla sentenza impugnata senza una sola parola di motivazione.
A parere della scrivente difesa, in rappresentanza e difesa del lavoratore, i motivi, seppur esplicitati nei tre punti precitati, meritavano il rigetto con conferma della decisione dei Giudici di appello della Corte territoriale catanzarese.
Sostanzialmente, seppur mascherandola sotto la pretesa violazione di norme e di omessa ovvero illogicità della motivazione dell’impugnata sentenza, la Società ricorrente cercava di sovrapporre la sua “ricostruzione fattuale” a quella operata dai Giudici del merito. Il lavoratore resisteva con controricorso.
Il commento alla decisione: la Corte di legittimità, nel rigettare il ricorso del datore di lavoro, ha sostanzialmente statuito che l’appropriazione di beni aziendali (tra l’altro riconosciuti dal lavoratore stesso sin dal giudizio di prime cure), ancorché illegittimo, non è del tutto sovrapponibile alla sottrazione funzionale al consumo immediato del bene. La Corte, nella sua decisione, si è soffermata anche sul campo penale individuando l’area del furto d’uso “…per essere il fatto commesso su cose di tenue valore” ed evidenziando il comportamento del lavoratore che “…ha deliberatamente scelto il prodotto di più bassa qualità, la preoccupazione di contenerlo – e per provvedere comunque ad un bisogno in qualche misura qualificabile grave ed urgente…”. In altri termini la Suprema Corte, nel confermare l’apparato argomentativo della sentenza di secondo grado, pur sottoposto a feroci censure del datore di lavoro, ha evidenziato che l’attenzione dei Giudici non doveva solo soffermarsi sul fatto materiale dell’impossessamento furtivo (per come voluto dal datore di lavoro) che costituiva solo l’antefatto di un ragionamento più complesso operato dalla Corte territoriale catanzarese. Infatti, scrive la Suprema Corte, nella decisione in commento “…la Corte territoriale…si rende anzi ben conto della configurabilità della condotta del dipendente come impossessamento furtivo di prodotti dell’azienda intenzionalmente operato…ma supera questi dati nel quadro di una valutazione della proporzionalità della sanzione che muove dalla derubricazione della stessa condotta da furto di vino a consumo di vino…” rilevando la correttezza della tesi sostenuta dal controricorrente lavoratore. La Corte di legittimità, nell’articolata ed interessante motivazione, evidenzia anche come “…appare assolutamente incommensurabile rispetto a quella della Corte territoriale” la prospettazione della vicenda a cura della Società ricorrente “…sicché le due versioni restano a fronteggiarsi senza interferire, non valendo quella proposta dalla Società ricorrente ad inficiare la validità di quella fatta propria dalla Corte territoriale”. Insomma il lavoratore non ha raccontato, per i Giudici della Sezione Lavoro, alcuna “favoletta” e ha puntualmente dimostrato le ragioni giustificatrici poste a base del suo gesto in un arco temporale ristretto (14 giorni a fronte di un rapporto lavorativo di quasi venti anni!). Si legge nella sentenza: “…non propriamente qualificabili frutto di una favoletta come vorrebbe la ricorrente e neppure indimostrate” richiamando la particolare situazioni personale e familiare del lavoratore, puntualmente dimostrate e neglette dal primo giudice del Tribunale catanzarese, per poi essere adeguatamente e correttamente valutate dai Giudici della Corte di Appello che accoglievano il gravame del lavoratore e riformavano completamente la sentenza di prime cure che si era censurata per una rigida ed errata interpretazione fattuale, nonché per la violazione del principio di proporzionalità tra fatto censurato al lavoratore e sanzione irrogata. Interessanti, a nostro avviso, non solo i principi di diritto enunciati nella decisione della Corte di Cassazione ma anche, e forse soprattutto, il buon senso che si ritrova in essa! Infatti si coglie l’aspetto “propriamente umano” del rapporto di lavoro quando, nell’analizzare le precitate situazioni si afferma: “…evenienze che non di rado possono spingere a indulgere a rimedi discutibili e socialmente censurabili ma soggettivamente percepiti come necessario sollievo ben può valere come esimente o circostanza attenuante…anche in considerazione dell’adibizione del lavoratore a mansioni non implicanti particolari responsabilità”. In altre parole bisogna umanizzare il rapporto di lavoro e il datore di lavoro, nell’irrogare le sanzioni, deve tenere sempre in considerazione la loro adeguatezza e proporzionalità al caso concreto. Se si ruba una mela per mangiarla (nel caso di specie alcune confezioni di vino di scadente qualità) non si può irrogare la sanzione massima del licenziamento che corrisponde, per i lavoratori, alla pena dell’ergastolo! Non bisogna soffermarsi sulla semplicistica osservazione che trattasi di ipotesi furtiva bensì, calandosi nel caso concreto e, quindi, sulle situazioni personali e familiari del lavoratore, che trattasi di appropriazione a consumo non trascurando il fattore temporale e la limitazione nel tempo degli atti d’impossessamento. La sentenza emessa ci fa comprendere che non c’è luogo profondo che l’intelligenza di una equilibrata decisione non possa rendere superficiale!
*Avvocati Magistrature Superiori del Foro libero di Catanzaro.