La definizione recata dall’art. 20, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo) – laddove prevede che una pratica commerciale è scorretta se «è contraria alla diligenza professionale» ed «è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori» – non costituisce una mera clausola “ricognitiva” delle pratiche commerciali ingannevoli ed aggressive ‒ rispetto alle quali sarebbe rilevante solo a fini interpretativi ‒, bensì integra una vera e propria “fattispecie” di illecito, dotata di autonoma portata disciplinare, alla quale è possibile attingere in via residuale.

Ha chiarito la Sezione che nella trama normativa, tale definizione generale di pratica scorretta si scompone in due diverse categorie: le pratiche ingannevoli (di cui agli artt. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli artt. 24 e 25). Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. ‘liste nere’) da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni ‘speciali’ di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 21 e all’art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla «diligenza professionale» nonché dalla sua concreta attitudine «a falsare il comportamento economico del consumatore».

Il tema inedito è quello di comprendere se il citato art. 20, comma 2, vada intesa come una mera clausola “ricognitiva” delle pratiche commerciali ingannevoli ed aggressive ‒ rispetto alle quali la definizione generale sarebbe rilevante solo a fini interpretativi ‒ oppure integri essa stessa una “fattispecie” di illecito, dotata di autonoma portata disciplinare, cui attingere in via residuale.

Ebbene, la lettura sistematica del titolo III della Parte seconda del codice del consumo rende certi che le “pratiche commerciali scorrette” costituiscono un genus unitario di illecito, i cui elementi costitutivi sono definiti dall’art. 20, comma 2. All’interno della fattispecie generale, il legislatore ha “ritagliato” ‒ per finalità di semplificazione probatoria ‒ due sottotipi (e all’interno di ciascuno di essi, due ulteriori fattispecie presuntive) che si pongono in rapporto di specialità (per specificazione) rispetto alla prima.

A questi fini, in ordine di successione ermeneutica: – occorre prima stabilire se la condotta contestata possa essere inquadrata all’interno delle “liste nere” (di cui agli articoli 23 e 26): in caso di risposta positiva, la pratica dovrà qualificarsi scorretta senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla «diligenza professionale» e la sua concreta attitudine «a falsare il comportamento economico del consumatore»; – qualora la pratica non sia ricompresa in nessuna delle due fattispecie presuntive, va accertato se ricorrono gli estremi della pratica commerciale ingannevole (artt. 21 e 22) oppure aggressiva (artt. 24 e 25): in tal caso, la verifica di ingannevolezza ed aggressività integra di per sé la contrarietà alla «diligenza professionale»; – ove i precedenti tentativi di sussunzione non risultino percorribili, non resta che ricorrere alla norma di chiusura sussidiaria di cui all’art. 20, comma 2: la mancata caratterizzazione dell’illecito in termini di ingannevolezza e aggressività, impone di accertare in concreto il grado della «specifica competenza e attenzione» che «ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti», tenuto conto delle peculiarità del caso di specie.

Acclarato che era ben possibile per l’Autorità ricorrere alla definizione generale di pratica commerciale scorretta per sanzionare violazioni della diligenza professionale diverse dalla ingannevolezza e dalla aggressività, vanno fatte due ulteriori considerazioni.

In primo luogo, non osta alla configurabilità dell’illecito l’assenza di un contatto “negoziale” tra la Società ed il consumatore che ha risentito il pregiudizio finale. Nel contenuto della «diligenza professionale» ‒ nozione autonoma rispetto a quella del codice civile, dove costituisce parametro di valutazione dell’esattezza dell’adempimento di obbligazioni ‒ rientrano anche gli adempimenti organizzativi che il rivenditore deve porre in essere per contrastare o almeno contenere il fenomeno di quanti acquistano massivamente per poi rivendere sul mercato secondario.

Neppure può sostenersi, ai fini di escludere l’illecito, che il consumatore si è autonomamente e spontaneamente rivolto ai rivenditori del mercato secondario. L’ampia nozione di «decisione di natura commerciale» consente di includere tra le pratiche idonee «ad indurre un consumatore ad assumere una decisione che non avrebbe altrimenti preso», non soltanto la condotta che si riveli fondamentale nello spingere il consumatore ad accettare di concludere un contratto con il professionista, ma anche la condotta del rivenditore che abbia semplicemente posto il consumatore nella impossibilità di finalizzare l’acquisto del biglietto per assistere all’evento di suo interesse, inducendolo a soddisfare il bisogno di consumo sul mercato secondario.

Consiglio di Stato, Sezione VI, 14 aprile 2020, n. 2414.

Categorie: Notizie