Una battaglia giudiziaria iniziata nel 2015, avverso un illegittimo licenziamento per motivi economici dell’impresa, e conclusasi il 7 marzo 2024 con la sentenza del Tribunale lavoro di Vibo Valentia che ha così sttauito: “P.Q.M. uditi i procuratori delle parti costituite, pronunciando definitivamente sulla domanda proposta da B. G. nei confronti di C. Group s.r.l., in persona del rappresentante legale pro tempore, disattese ogni altra istanza ed eccezione, così provvede: … conseguentemente dichiara illegittimo il recesso impugnato; per l’effetto condanna la convenuta alla reintegrazione del ricorrente nel posto occupato, e alla corresponsione al medesimo di dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto goduta dallo stesso (oltre agli accessori di legge), nonché al versamento dei pertinenti contributi previdenziali e assistenziali per tutto il tempo della risoluzione del rapporto;”.

Il lavoratore – proponendo ricorso in opposizione ai sensi dell’art. 1, L c., l. 92/2012 – adisce il Tribunale al fine di accertare l’illegittimità del licenziamento intimatogli, e ottenere il ripristino del rapporto di lavoro intercorrente con la controparte, nonché il risarcimento dei danni conseguenti alla risoluzione del contratto lavorativo. La Società ha resistito al ricorso, ha esplicato le ragioni sottese alla comunicazione di licenziamento e ha sempre insistito per la reiezione delle doglianze attoree.

Scrive il giudice nella sentenza in commento: “Giova rammentare come – in materia di recesso per giustificato motivo oggettivo – la determinazione datoriale risulti irreprensibile purché ricorrano I) esigenze organizzative e produttive specificamente individuate (e ipoteticamente consistenti anche soltanto nell’intenzione aziendale di riduzione dei costi o di massimizzazione dei profitti), II) un nesso causale fra il proposito dichiarato dal datore e la scelta di sopprimere un dato posto di lavoro (ossia quello interessato – appunto – dal licenziamento), dimodoché possa escludersi la pretestuosità della misura espulsiva irrogata ovvero la sua contraddittorietà (per incompatibilità con il fine datoriale dichiarato) o mera apparenza di motivazione, e III) l’impossibilità d’utile ricollocazione endoaziendale del prestatore licenziato. Come sottolineato – ancora recentemente – dalla giurisprudenza di legittimità, più partitamente, a) «Ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa (Cass. n. 25201 del 2016; Cass. n. 10699 del 2017)» (in tal senso, Cass., Sez. Lav., ord. n. 17173/2022), laddove b) «Se è stata ipotizzata una generale necessità di procedere ad una politica di contenimento dei costi, diviene necessario approfondire (ed è onere del datore di lavoro di indicare) le ragioni per le quali la scelta cade su quel determinato lavoratore, dovendosi prendere in considerazione altre posizioni di lavoro, tanto più se si trattava di ruoli comparabili – in quanto parimenti non previsti in organico – come nel caso del terzo corno. Ciò del resto appare logico e coerente ai fini del controllo sul g.m.o. in cui la ragione organizzativa e/o produttiva collegata ad una politica di riduzione dei costi deve essere valutata nella sua concreta esistenza ed entità, onde accertare l’effettività della scelta effettuata a valle con la soppressione dell’unico posto di lavoro (peraltro già soppresso precedentemente); senza che questo trasmodi in indebita interferenza con la discrezionalità delle scelte datoriali, dato che l’ineffettività della ragione economica comunque addotta incide sulla stessa legittimità del recesso “non per un sindacato su di un presupposto in astratto estraneo alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, bensì per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità o sulla pretestuosità della ragione addotta dall’imprenditore” (come osservato da questa Corte nella nota sentenza n. 25201 del 07/12/2016)» (conformemente a Cass., Sez. Lav., ord. n. 31660/2023), e c) la riallocazione del lavoratore deve potersi condurre sulla base di un canone di ragionevolezza «Che non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero ampliamenti di organico o innovazioni strutturali non volute dall’imprenditore» (in tal senso, Cass., Sez. Lav., sent. n. 31521/2019): quanto sopra, ferma restando l’opponibilità dell’obbligo di ripescaggio nei confronti della sola azienda datrice, allorquando – in presenza di un gruppo d’imprese – l’evocazione in giudizio compiuta dal ricorrente (in esordio della lite) sia stata limitata esclusivamente alla società (nella specie: Callipo Group s.r.l., ossia la capogruppo) concretamente parte del rapporto di lavoro (come sottolineato da Cass., Sez. Lav., ord n. 1656/2020).”

Nella vicenda in esame, con ampia e complessa prova documentale e testimoniale, è emerso che nella situazione aziendale desumibile dalla documentazione versata al procedimento non supporta pienamente la scelta datoriale di recedere dal contratto in essere con il lavoratore.

E ancora il Giudice del Lavoro di Vibo Valentia: “Dalla constatazione anzidetta deriva, allora, come la tesi attorea – della giustificabilità del recesso (per motivo oggettivo) nel solo caso di una contrazione dell’attività produttiva e della sua remuneratività complessiva – non possa condividersi, poiché (come da tempo chiarito anche in giurisprudenza) il recesso per giustificato motivo oggettivo rimane ammesso – oltreché nelle statisticamente prevalenti ipotesi d’andamento imprenditoriale declinante – anche al cospetto di scelte datoriali d’ottimizzazione della gestione e massimizzazione dei profitti, la cui effettiva individuabilità (nel caso considerato di volta in volta) e la cui efficienza causale (nei confronti del licenziamento disposto conseguentemente) costituiscono i presupposti necessari (ma al contempo sufficienti) di superamento del vaglio giudiziale circa la sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore (a sostegno della misura irrogata).”

Ed ancora in parte motiva si legge: ” Dalla disamina del carteggio intercorso fra le parti antecedentemente alla risoluzione, emerge come l’esposizione delle ragioni sottese (alla giustificazione del recesso, nonché) all’irrecuperabilità d’occasioni di proficuo impiego lavorativo del ricorrente presso C. Group s.r.l. sia avvenuta stilisticamente, e non sia stata accompagnata all’esplorazione – piena ed effettiva – di tutte le ragionevoli possibilità di prosecuzione delle parti nel loro vincolo negoziale. Per tutto quanto appena chiarito, dunque, la domanda va accolta, il lavoratore reintegrato – in applicazione del combinato disposto dei commi IV e VII dell’art. 18, l. 300/1970: si veda, al riguardo, Cass., Sez. Lav., 35496/2022 – e la società condannata anche alla corresponsione di un’indennità risarcitoria qui stimata congrua in dieci mensilità dell’ultima retribuzione percepita dall’esponente al tempo della risoluzione del rapporto (oltre agli accessori di legge), oltreché al versamento dei pertinenti contributi previdenziali e assistenziali per tutto il tempo della risoluzione illegittima del rapporto.”

Il lavoratore ha visto accolta la sua domanda ma dopo quanto tempo? Ci sono voluti quasi dieci anni (tra la fase c.d. Fornero e la successiva opposizione) per ottenere giustizia. Ma il rito del lavoro non è improntato alla celerità e all’oralità? Invece è divenuto, al pari del civile, un processo scritto e lento. Insomma il rito del lavoro si è “civilizzato” ma in peggio..

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